Ipercapnia: insidia dell’immersione profonda

Fonte: Ipercapnia (Parte 1) - Ipercapnia (Parte 2)

 

 

Chiunque abbia frequentato corsi per immersioni profonde o con decompressione ha di certo approfondito il tema dei rischi connessi con la respirazione di azoto e ossigeno iperbarici.

Questi due gas sono infatti i costituenti principali sia dell’aria che delle miscele Nitrox; durante una immersione a profondità impegnative essi raggiungono una pressione parziale che può avvicinarsi ai livelli di guardia, da tenere quindi sotto controllo. Il rischio legato all’ossigeno è la sua tossicità sul sistema nervoso centrale (che può portare ad un attacco convulsivo) mentre il problema legato all’azoto è la ben nota sindrome narcotica da aria compressa.

L’ossigeno, come è noto, va mantenuto prudenzialmente entro la pressione parziale di 1,4 bar, mentre l’azoto inizia a dare sintomi di narcosi, in soggetti sensibili, ad una pressione parziale oltre i 3 bar. Potremmo quindi pensare che tenere a bada questi due gas sia sufficiente a gestire una immersione profonda in sicurezza.

 

Ma c'è un terzo incomodo...

Presente nell’aria, in percentuali veramente minime rispetto agli altri due gas, esiste un gas che costituisce una minaccia subdola e silenziosa: l’anidride carbonica o, più correttamente, diossido di carbonio (CO₂). Molti ritengono, a torto, che il diossido di carbonio non costituisca un pericolo proprio perché presente nell’aria soltanto in percentuale minima. In realtà esso è un prodotto tossico della respirazione cellulare, ovvero del processo che permette di ottenere energia dall’ossidazione degli zuccheri o dei grassi. Per essere eliminato, il diossido di carbonio (CO₂) , dopo essere stato generato nei tessuti, si riversa nel sangue venoso e da questo viene portato ai polmoni per essere espulso.

Proprio questo è il compito fondamentale della espirazione, la cui importanza è spesso sottovalutata: eliminare efficacemente la CO₂ prodotta. Se l’espirazione non avviene in modo efficiente, il tasso di anidride carbonica nel sangue tende a stabilizzarsi su livelli più alti del normale, dando luogo ad ipercapnia, il cui effetto più comune è la sensazione di fame d’aria e l’aumento del ritmo respiratorio. Normalmente tale aumento della ventilazione aiuta a riportare la CO₂ nel sangue alla normale concentrazione, ma quando si è in immersione l’efficienza di questo processo è sensibilmente alterata a causa di vari fattori fisici e fisiologici, tanto da risultarne ridotta. L’ipercapnia diviene quindi un pericolo latente delle immersioni profonde o caratterizzate da fasi di affaticamento intenso e prolungato.

 

 

Essa comporta una situazione di rischio elevato per un duplice motivo. In primo luogo l’ipercapnia è un pericolo di per se, una vera e propria intossicazione che indice una se-rie di propri sintomi ed effetti fisiologici che possono arrivare ad essere gravi o gravissimi. In secondo luogo l’eccesso di CO₂ rende più critici gli effetti e le conseguenze sia della tossicità dell’ossigeno che della narcosi da azoto, entrambe sempre in agguato in immersioni profonde e impegnative. Per evitare l’ipercapnia si agisce in due modi: limitando la produzione stessa di anidride carbonica, e assicurando che essa sia eliminata con la massima efficienza possibile.

Per limitare la produzione di CO₂ è necessario controllare l’attività muscolare, principalmente evitando lavoro pesante e sforzi eccessivi o prolungati. Essi talvolta non possono essere evitati, ad esempio quando ci si trova a dover fronteggiare una corrente inaspettata, ma bisogna escludere già in fase di pianificazione dell’immersione i lunghi trasferimenti, ambienti con forti correnti, mare mosso, e fare attenzione alla disposizione dell’attrezzatura in modo che offra la minima resistenza all’avanzamento, etc.

Per assicurare invece una efficiente eliminazione delle CO₂ prodotta, occorre effettuare una respirazione regolare e profonda, curando soprattutto la fase di espirazione, e disporre di secondi stadi di erogazione che abbiano prestazioni ottime, non quelle sbandierate con facile entusiasmo a seguito del proprio ultimo acquisto, ma quelle certificate dalle case costruttrici, verificabili valutando i risultati dei test e le caratteristiche tecniche dell’erogatore. Per immersioni a bassa profondità l’ipercapnia è più facile da mantenere a distanza, in quanto vengono meno alcuni fattori che a profondità maggiori contribuiscono in modo determinante all’accumulo di CO₂, in particolare l’aumento dello sforzo inspiratorio ed espiratorio legati all’alta viscosità dell’aria ad alta pressione.

A molti sarà capitato di dover compiere uno sforzo straordinario e prolungato a profondità medio alte: tipicamente fronteggiare una corrente intensa. E’ facile che ciò sfoci ben presto nella sensazione sgradevolissima, malgrado il ritmo respiratorio sia accelerato, che il flusso di gas fornito dall’erogatore sia insufficiente. Può persino sembrare che ci sia un guasto, un impedimento che non consente un adeguato passaggio di gas, come una frusta malamente ripiegata o un erogatore difettoso, e ciò malgrado la lancetta del manometro scenda velocemente per i consumi più elevati, dimostrando indirettamente che il flusso di gas è più che sostenuto. E sovente, anziché cercare di rallentare il ritmo respiratorio e di espirare in modo più profondo, si cerca un istintivo sollievo dalla dispnea respirando e nuotando convulsamente, in un giro vizioso che non fa che aumentare il rischio dell’ipercapnia. Si può arrivare a dover dominare l’istinto di risalire a gran velocità o addirittura di togliere di bocca l’erogatore per prendere una sufficiente boccata … d’acqua.

Ma possiamo trovarci in situazione di ipercapnia senza affatto rendercene conto. I sintomi dell’eccesso di anidride carbonica possono essere del tutto assenti, o in alcuni casi essere confusi con quelli della narcosi. Quando sono avvertibili, ecco quali sono quelli che si presentano con maggior frequenza, in ordine di severità:

  • aumento della frequenza respiratoria e cardiaca
  • fame d’aria (dispnea)
  • cefalea , anche dopo l’immersione, spesso unico sintomo riportato
  • copiosa sudorazione
  • confusione mentale, azioni insensate
  • vertigini e nausea
  • convulsioni, perdita di coscienza

Come le altre sindromi descritte, l’ipercapnia ha una azione concomitante con quella degli altri gas compressi, e risulta sempre complicato discriminare con precisione i sintomi ed effetti dell’una rispetto alle altre.

Per capire meglio le cause e gli effetti dell’eccesso di CO₂, occorre prima di tutto dare un’occhiata a come viene regolata la respirazione in condizioni normobariche, ovvero respirando normalmente fuori dall’acqua, nella vita di tuti i giorni.

 

La respirazione

Nella vita di tutti i giorni, il ritmo respiratorio è mantenuto e controllato in modo autonomo, analogamente al battito cardiaco. A differenza di esso può però essere modificato o interrotto volontariamente per un tempo limitato. L’organismo determina autonomamente la frequenza e la profondità respiratoria tramite un vero e proprio sistema di controllo automatico ed autonomo della respirazione. Esso è costituito da una specie di computer centrale, che riceve informazioni dall’ambiente circostante tramite una rete di sensori dislocati in punti strategici e collegati tramite apposite vie di comunicazione, e invia comandi a meccanismi attuatori, la cui azione determina ritmo e profondità del respiro.

Tornando dalla metafora informatica alla realtà fisiologica, il computer di comando e controllo è costituito dai cosiddetti centri respiratori situati nel tronco cerebrale, una parte del sistema nervoso centrale situata tra midollo spinale e cervello.

 

La rete di comunicazione è di tipo nervoso e serve sia ad inviare i comandi ai muscoli intercostali e al diaframma, che determinano l’inspirazione ed espirazione, sia a ricevere dai sensori i segnali che verranno elaborati in tempo reale per determinare tali comandi. E’ un sofisticato sistema di controllo attivo che ha l’obiettivo di mantenere il livello di ossigeno e CO₂ nel sangue nei valori normali in funzione dalle esigenze dell’organismo. I sensori sono di vario tipo e dislocati in varie posizioni, e sono:

  • CHEMIORECETTORI CENTRALI:
    i più importanti e rapidi, situati direttamente nei centri respiratori del tronco cerebrale. Sono sensibili alla variazione di acidità del sangue (pH), che è proporzionale alla quantità di CO₂ in esso disciolta. Sono principalmente questi sensori a determinare l’aumento della ventilazione se rivelano un alto valore della pressione di anidride carbonica nel sangue.
  • CHEMIORECETTORI PERIFERICI:
    situati in prossimità della biforcazione delle carotidi (di maggiore importanza), e nell’arco dell’aorta. Sono sensibili a diminuzioni della pressione di ossigeno e aumento della anidride carbonica nel sangue. Sono principalmente responsabili dell’aumento della ventilazione a seguito di rivelazione di bassa pressione di ossigeno nel sangue arterioso.

Tutte le informazioni fornite indipendentemente dai recettori vengono elaborate dai centri respiratori. Se la concentrazione di CO₂ diviene anche leggermente superiore alla norma, si ha immediatamente un incremento della ventilazione, mentre si ha un effetto opposto al suo diminuire.

Il sistema di controllo è molto più sensibile alla concentrazione di CO₂, rilevata dai chemiorecettori centrali, piuttosto che alla concentrazione di ossigeno, monitorata dai chemiorecettori periferici. In un certo senso questi ultimi agiscono come un sistema di controllo di riserva dei recettori centrali. In particolare, circa il 78-80 % della variazione di ventilazione polmonare è dovuto all’aumento della CO₂, che è rilevata dai chemiorecettori centrali.

In condizioni di normale respirazione a pressione atmosferica, l’emoglobina contenuta nei globuli rossi trasportati dal sangue arterioso è praticamente satura di ossigeno. Quando raggiunge i tessuti, essa cede ai tessuti buona parte dell’ossigeno a cui è legata. Anche la CO₂ prodotta nei tessuti ha necessità di essere trasportata dal sangue, ormai divenuto venoso per aver ceduto ossigeno.

Circa un quarto della CO₂ prodotta si lega proprio all’emoglobina lasciata libera dall’ossigeno per tornare ai polmoni. In sostanza l’emoglobina si comporta come una specie di autobus che viaggia tra due capolinea: trasporta ossigeno nel viaggio di andata dal cuore ai tessuti, qui giunto ne fa scendere una parte, nei posti lasciati vuoti fa salire la CO₂ prodotta che porta indietro ai polmoni, ove viene ceduta per far nuovamente posto all’ossigeno; quindi comincia un altro giro.

 

Cosa succede durante l'immersione?

Respirando aria alla pressione dell’ambiente circostante, nel caso di una ventilazione polmonare normale e regolare, la CO₂ nell’aria respirata in profondità aumenta la sua pressione parziale, ma malgrado ciò essa resta piuttosto bassa, essendo basso il valore di partenza.

Ciò avviene anche per l’ossigeno, che però è presente in concentrazione molto più elevata: esso si trova quindi in forte eccesso. L’emoglobina è però già satura di ossigeno, e quello in eccesso non può che sciogliersi nel plasma e quando, giunge ai tessuti, viene fornito prevalentemente dal plasma stesso. Quindi anche nel sangue venoso l’emoglobina avrà uno stato di saturazione di ossigeno più alto del normale, riducendo di conseguenza lo spazio normalmente a disposizione per trasportare la CO₂ dalla periferia ai polmoni. L’anidride carbonica deve quindi accontentarsi del plasma e dei globuli rossi ma in forma di acido carbonico. In pratica, la CO₂ non trova più posto nell’autobus, essendo tutti i posti occupati dall’ossigeno anche nel viaggio di ritorno dai tessuti ai polmoni.

l’emoglobina, indicata normalmente con Hb (e chiamata emoglobina A negli esseri umani adulti), consiste di quattro catene polipeptidiche, rispettivamente due catene A e due catene B, tenute assieme da forze di legame non covalenti. 

Ciò vuol dire che la concentrazione di CO₂ nel sangue aumenta proprio a causa dell’eccesso di ossigeno, che limita l’efficienza del suo processo di rimozione e trasporto verso i polmoni. Questa ipercapnia è rivelata prevalentemente dai chemiorecettori centrali, che stimolano quindi un aumento della ventilazione, al fine di rimuovere la CO₂ in eccesso. Tuttavia, durante una immersione profonda questo aumento di ventilazione non ha l’efficienza che avrebbe respirando in superficie, per due motivi.

In primo luogo l’aumento di ventilazione è meno marcato del dovuto per effetto dei recettori periferici, prevalentemente sensibili alla concentrazione di ossigeno, che è invece adesso risulta in eccesso. In secondo luogo, il ricambio di aria è limitato dal maggiore sforzo respiratorio e dal maggiore ristagno. Infatti il gas respirato in profondità è denso e viscoso, maggiormente incline ad un moto di tipo turbolento, che aumenta la resistenza meccanica che l’erogatore deve vincere ad ogni atto respiratorio.

Inoltre, l’interposizione dell’erogatore aumenta il volume dei cosiddetti spazi morti, l’insieme delle condutture ove l’aria deve transitare per entrare e uscire dai polmoni, e nelle quali il gas respirato va avanti e indietro senza essere ricambiato. Tutti questi effetti, fanno si che in immersione l’anidride carbonica nel sangue tenda a livellarsi più in alto del normale, anche in caso di ventilazione non accelerata. Se a questo si unisce una situazione di forte affanno e prolungato sforzo muscolare, si può provare la sensazione di una insufficiente erogazione, e di fame di aria non appagata particolarmente insidiosa e tale da far pensare ad un guasto o a un malfunzionamento.

Esistono poi alcuni soggetti, i cosiddetti ritentori di anidride carbonica, (“CO₂ retainers”) i quali hanno una risposta personale già di per se ridotta all’aumento della CO₂ nel sangue. Per costoro, per i quali la ventilazione è mediamente meno stimolata ad incrementarsi a fronte di sforzo muscolare e conseguente aumento di CO₂, il tasso di anidride carbonica nel sangue tende a stabilizzarsi su livelli particolarmente alti anche per sforzi non particolarmente eccessivi. Spesso i CO₂ retainer sono subacquei molto esperti o atleti ben allenati, il che fa pensare che questa condizione possa essere dovuta all’abitudine alla respirazione iperbarica o allo sforzo muscolare.

Possiamo riassumere i concetti come segue :
– in profondità la elevata pressione di O₂ rende meno efficiente l’eliminazione di CO₂ e causa una riduzione di sensibilità dei centri respiratori. Ciò genera quindi un aumento di O₂ e un ridotto aumento ventilatorio in risposta ad esso; 

– la maggiore densità e viscosità dell’aria ad alta pressione causano maggior sforzo respiratorio, e l’erogatore limita gli scambi gassosi e aumenta gli spazi morti;

– esiste la possibilità di essere un subacqueo con bassa risposta ventilatoria all’incremento di CO₂, un cosiddetto “CO₂ Retainer”;

– la bassa temperatura e l’effetto costrittivo della muta contribuiscono a limitare efficienza della respirazione ai fini dello smaltimento della CO₂.

In sintesi, possiamo dire che in una immersione profonda vari fattori contribuiscono ad un aumento della anidride carbonica nel sangue, contestuale ad una ridotta sensibilità ed efficienza del sistema di misurazione e controllo automatico di questa CO₂ in eccesso, (recettori e ventilazione).

Dei sintomi di ipercapnia elencati in precedenza spesso è il solo mal di testa a presentarsi e a volte neppure quello. Può capitare quindi di trovarsi sull’orlo del baratro dell’ipercapnia e non rendersene conto, e in questo caso il rischio maggiore è quello di una perdita di coscienza improvvisa.

 

Come ridurre questo rischio?

Ovviamente facendo attenzione ai sintomi ma, soprattutto, restando sempre concentrati sul modo di respirare e di agire. Occorre mantenere un ritmo respiratorio lento, continuo e profondo, sottraendosi il più possibile a stati di affanno, eccessivi sforzi e lavoro in profondità. Bisogna inoltre evitare tassativamente micro-apnee e interruzioni delle respirazione, utilizzare sempre erogatori dalle alte prestazioni, ben funzionanti e revisionati di recente.

Il controllo della fase espiratoria è ancor più importante di quello della fase inspiratoria. Durante l’inspirazione le alte prestazioni dell’erogatore e l’elevata pressione di ossigeno fanno si che gli alveoli si riempiano con sforzo relativamente lieve e con aria ben ossigenata. Viceversa, l’espirazione deve essere controllata al fine di svuotare bene, volontariamente e ad ogni ciclo, le aree di ristagno dell’aria, che altrimenti tende a divenire sempre più carica di CO₂. Tutti queste accortezze, sebbene sempre utili da adottare in immersione, divengono tassative quando si affrontano immersioni a profondità elevate e in condizioni meteo-marine avverse  in situazioni di stress psico-fisico.

Queste due ultime situazioni sono naturalmente da evitare il più possibile, rimandando l’immersione in attesa di condizioni ambientali e personali più favorevoli.